La consigliera pisana "talebana" e l'Afghanistan

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wilcoyote
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La consigliera pisana "talebana" e l'Afghanistan

Messaggio da wilcoyote »

https://www.fanpage.it/politica/la-cons ... i-dimetta/
Prendo spunto da una discussione con alcuni noti forumisti sull'articolo su linkato per parlare di un altro articolo, letto sulla mailing list del Corriere della Sera.

La signora ha detto: "La presa del potere da parte dei fondamentalisti islamici è una tappa obbligata per un Paese, l'Afghanistan, ancora alla ricerca di un'identità politica e sociale, in cui l'occidente non è riuscito a costruire niente di rilevante nella vita della gente comune".

Francamente non ci trovo nulla di scandaloso ed è anzi un atto di accusa agli errori commessi dagli occidentali. La verità fa male ma non per questo cessa di essere vera! (in grassetto sottolineato la frase chiave)

Il "succo" di queste parole è lo stesso di diversi articoli di quotidiani "seri" (ammesso che in Italia ce ne siano), prendo questo ad esempio perché praticamente fa una "summa" della maggioranza degli altri articoli.

La vera guerra che gli Usa hanno perso in Afghanistan (senza combattere): quella alla corruzione

di Luca Angelini

Può darsi che, come sostengono molti, vincere la guerra in Afghanistan (la «tomba degli Imperi») fosse impossibile. Forse, però, argomenta Martin Sandbu sul Financial Times (The west has paid the price for neglecting the Afghanistan economy), si poteva almeno provare a vincere la pace. O una guerra diversa: quella alla corruzione. Ed è una guerra che gli Usa e i loro alleati non soltanto non hanno vinto, ma non hanno nemmeno combattuto. Il dibattito sull’opportunità o meno del nation building (che il presidente Biden ha detto non essere mai stato fra gli obiettivi Usa), Sandbu lo vede così: «Costruire una nazione è senza dubbio compito di chi vi appartiene. Costruire uno Stato e un’economia funzionanti, però, è qualcosa che l’Occidente non solo avrebbe potuto fare ma che aveva il dovere di fare dopo aver cacciato i talebani nel 2001. L’amara verità è che non ci ha mai nemmeno davvero provato».

La prima dimostrazione è che, anche se il reddito pro capite afghano è oggi superiore a quello degli anni Novanta, da un decennio è fermo a circa 600 dollari l’anno. Come ha fatto notare su Project Syndicate l’economista Jeffrey Sachs (secondo il quale quello afghano non è un fallimento repubblicano o democratico, ma «il fallimento della cultura politica americana, riflessa nella mancanza d’interesse dei politici Usa a comprendere società diverse che, in fondo, disprezzano»), la stragrande maggioranza dei miliardi di dollari Usa in Afghanistan sono andati in spese militari e per la sicurezza. Ma se è vero, scrive Sandbu, che strutture statali resilienti e attività economica richiedono un ambiente sicuro, anche l’inverso è vero: «Uno Stato e un’economia che avessero fatto il bene degli afghani avrebbe reso più efficiente la spesa militare, dando alle forze armate afghane qualcosa per cui combattere e lasciando ai talebani meno terreno fertile per il reclutamento».

Ci torna in mente l’intervista di Gabriella Gagliardo, del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane, che abbiamo citato nella Rassegna del 18 agosto: «Tutto questo era prevedibile. L’occupazione non è servita a dare la possibilità al Paese di costruirsi un governo democratico. Sono stati vent’anni di governi fantoccio e gli Stati Uniti e la Nato hanno fatto in modo che avessero le leve del potere personaggi che potevano essere per loro utili e che non erano affatto democratici». Sandbu cita la testimonianza di Sarah Chayes, ex consigliera delle forze Usa in Afghanistan e autrice di un libro sulla corruzione nel Paese, secondo la quale a molti afghani i talebani sembrano intollerabilmente brutali e autoritari, ma meno corrotti di chi era al governo prima (come conferma anche un sondaggio di Intergrity Watch Afghanistan). Sull’integrità morale dei talebani, che Roberto Saviano ha descritto sul Corriere come «i nuovi narcos», si potrebbe discutere. Ma varie fonti confermano che circa 2,5 miliardi di dollari l’anno, quasi un quarto del Pil afghano, se ne vanno ogni anno in tangenti. Gli Usa, secondo Chayes, avevano il potere per provare a cambiare le cose e non l’hanno usato. Hanno invece rafforzato la corruzione, riassume Sandbu, «indirizzando fondi verso i loro intermediari preferiti, interagendo solo con le persone di potere e intimidendo così gli afghani comuni che avessero voluto denunciare gli abusi e non riuscendo a mettere in piedi un sistema di pesi e contrappesi, ad esempio addestrando in materia di indagini una polizia indipendente».

Dire oggi che ogni sforzo di costruire uno Stato afghano funzionante sarebbe stato comunque vano è, secondo Sandbu, «un perverso scaricamento di responsabilità. Gli Usa e i loro alleati avrebbero potuto agire in modo diverso. Avrebbero potuto distribuire denaro direttamente alla popolazione, invece di installare custodi locali delle risorse». Avrebbero potuto e dovuto introdurre più trasparenza e supervisione. E imporre sanzioni contro politici e funzionari corrotti. Per questo, anche se si parla molto della guerra impossibile da vincere, «la vera ignominia sono i 20 anni di disinteresse occidentale per una pace che si poteva vincere».
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ale9191
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Re: La consigliera pisana "talebana" e l'Afghanistan

Messaggio da ale9191 »

La signora è stata attaccata da Destra e Sinistra in un modo ignobile e questo mi fa orrore ma resto dell’idea che abbia detto una grossa castroneria. Credo che, al netto dello scempio di Stati Uniti e co. in questi vent’anni, il popolo afghano abbia delle grosse responsabilità e imputare tutte le colpe ai paesi occidentali faccia solo comodo.
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wilcoyote
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Re: La consigliera pisana "talebana" e l'Afghanistan

Messaggio da wilcoyote »

Di sicuro ha le sue responsabilità, ma assai inferiori a quelle degli occidentali, che non si sono preoccupati minimamente della corruzione pervasiva.
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Gamanto
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Re: La consigliera pisana "talebana" e l'Afghanistan

Messaggio da Gamanto »

Vale la pena ricordare, anche se non fa comodo ricordarlo, che quando nel 1989 l'Armata Rossa si ritirò dall'Afghanistan, il governo in carica di Mohammad Najibullah resistette fino al 1992 all'offensiva della guerriglia islamica foraggiata da Pakistan, Stati del Golfo, Arabia Saudita e USA. Solo dopo il crollo dell'Unione Sovietica, con relativa cessazione di ogni aiuto militare, dovette alzare bandiera bianca. Eppure i sovietici avevano speso per l'Afghanistan cifre enormemente inferiori di quelle sperperate dagli USA in vent'anni, ma avevano speso in modo serio e oculato, favorendo la crescita di un ceto medio evoluto ed istruito, soprattutto nella aree urbane, creando in tal modo un reale consenso intorno al governo in carica. Non avevano sistematicamente foraggiato i vari signori della guerra e despoti locali, col solo scopo di essere più o meno obbediti. Un modus operandi già adottato dagli USA in Vietnam tanti anni prima, e poi più recentemente in Iraq, e che ha sempre fallito generando essenzialmente corruzione. Ed il corrotto governo insediato dall'Occidente in Afghanistan, così come le sue forze armate, lasciati a se stessi si sono sciolti come neve al sole.
Ultima modifica di Gamanto il 27 ago 2021, 9:52, modificato 1 volta in totale.
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wilcoyote
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Re: La consigliera pisana "talebana" e l'Afghanistan

Messaggio da wilcoyote »

Kissinger dixit (da un articolo del Corriere)
L’ex segretario di Stato: la trasformazione in un Paese moderno richiedeva tempi non conciliabili con i processi politici americani

La riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani ci costringe a dare la massima priorità all’espatrio e messa in sicurezza di decine di migliaia di persone, tra americani, alleati e cittadini afghani dislocati in tutto il Paese. Occorre tuttavia un’attenta riflessione per capire come mai l’America si sia ritrovata a dare l’ordine del ritiro, con una decisione presa senza preavviso né accordo preliminare con gli alleati e con le persone coinvolte in questi vent’anni di sacrifici. E come mai la principale questione in Afghanistan sia stata concepita e presentata al pubblico come la scelta tra il pieno controllo dell’Afghanistan o il ritiro totale. Un problema di fondo ha tormentato a lungo i nostri interventi di contrasto alla guerriglia, dal Vietnam all’Iraq. Quando l’America mette in pericolo la vita dei suoi militari, e in gioco il suo prestigio, chiamando a raccolta anche altri Paesi, deve farlo sulla base di una combinazione di obiettivi strategici, per chiarire quali sono le circostanze che hanno motivato la guerra, e politici, per definire la struttura governativa in grado di appoggiare efficacemente i risultati raggiunti, all’interno del Paese coinvolto e sulla scena internazionale.

Gli Stati Uniti si sono rivelati inadeguati nelle azioni di contrasto agli insorti a causa della loro incapacità nel definire quali fossero gli obiettivi raggiungibili e di collegarli tra loro in modo tale da ricevere l’appoggio delle istituzioni politiche americane. Gli obiettivi militari sono stati troppo assoluti e irraggiungibili, quelli politici troppo astratti e sfuggevoli. L’incapacità di collegarli tra loro ha fatto sì che l’America restasse invischiata in conflitti privi di termini ben definiti, e ci ha portati, in patria, a perdere di vista la finalità condivisa, sconfinando in un marasma di diatribe interne. Siamo sbarcati in Afghanistan sull’onda di un ampio sostegno popolare in risposta agli attacchi terroristici di Al Qaeda sferrati contro l’America da un Afghanistan controllato dai talebani. La campagna militare iniziale ha raggiunto i suoi scopi con la massima prontezza. I talebani sono sopravvissuti essenzialmente nei covi forniti dal Pakistan, dai quali hanno continuato a combattere la loro battaglia in Afghanistan con il supporto di una parte delle autorità pakistane.

Ma proprio nel momento in cui i talebani lasciavano il Paese, noi abbiamo perso di vista il nostro principale obiettivo strategico. Ci siamo persuasi che l’unico modo per impedire il ritorno delle basi terroristiche nel Paese era quello di trasformare l’Afghanistan in uno Stato moderno, dotato di istituzioni democratiche e di un governo insediato su base costituzionale. Una tale impresa non poteva prevedere un calendario certo, conciliabile con i processi politici americani. Nel 2010, in un articolo in risposta all’invio di nuovi effettivi americani in Afghanistan, avevo lanciato un monito contro un procedimento talmente lungo e invasivo che rischiava di alienare le simpatie della maggioranza degli afghani, anche di coloro che si erano opposti ai jihadisti.

Perché l’Afghanistan non è mai stato un Paese moderno. La sovranità presuppone un sentimento di doveri condivisi e l’accentramento del potere. Il territorio afghano, ricco com’è di tanti elementi, è particolarmente carente in questi settori. Erigere uno Stato democratico moderno in Afghanistan, dove i decreti del governo vengano rispettati da un capo all’altro del Paese, richiede anni, se non decenni. E va a scontrarsi con la componente geografica, etnica e religiosa del territorio. È stata appunto la litigiosità, l’isolamento e l’assenza di un’autorità centrale in Afghanistan a renderlo particolarmente invitante come base per le organizzazioni terroristiche.

Benché si possa far risalire la presenza di una società distintamente afghana al secolo XVIII, le sue popolazioni si sono sempre ferocemente opposte alla centralizzazione. Il raggruppamento politico, e in particolar modo militare, in Afghanistan ha sempre seguito le linee delle etnie e dei clan, in una struttura essenzialmente feudale, nella quale i detentori del potere sono coloro che organizzano le milizie di difesa del clan. Tipicamente impegnati in conflitti latenti gli uni contro gli altri, questi signori della guerra spesso si associano in larghe coalizioni ogni qualvolta una potenza esterna interviene per imporre centralizzazione e coesione — vedi l’invasione da parte dell’esercito britannico nel 1839 e delle forze armate sovietiche che occuparono l’Afghanistan nel 1979.

Tanto la drammatica ritirata degli inglesi da Kabul nel 1842, nella quale un solo europeo riuscì a sottrarsi alla morte o alla cattura, che la storica ritirata dei sovietici dall’Afghanistan nel 1989, furono causate dalla mobilitazione temporanea di tutti i clan. L’attuale tesi che gli afghani non siano disposti a combattere per il loro Paese è ampiamente smentita dalla storia. Gli afghani, anzi, si sono rivelati intrepidi combattenti per i loro clan e per la loro autonomia tribale. Con il passar del tempo, la guerra ha assunto progressivamente i connotati delle precedenti campagne di contrasto alla guerriglia, durante le quali il sostegno dell’opinione pubblica americana è andata via via affievolendosi. La distruzione delle basi talebane era stata essenzialmente terminata. Ma la costruzione di una nazione, in un Paese dilaniato dalla guerra, ha richiesto un ingente spiegamento di mezzi militari. I talebani sono stati tenuti sotto controllo, ma non eliminati. L’introduzione di forme di governo inconsuete, d’altro canto, ha indebolito l’impegno politico e incoraggiato la corruzione già dilagante.

Si può pertanto affermare che l’Afghanistan ha ricalcato i precedenti modelli delle polemiche americane interne. Quello che i fautori della lotta ai ribelli definivano come progresso, veniva classificato come disastro dall’ala politica opposta nel dibattito. I due gruppi si sono paralizzati a vicenda durante i successivi governi, nell’uno e nell’altro schieramento politico. Ricordiamo la decisione presa nel 2009, di far seguire all’invio di nuove truppe in Afghanistan l’annuncio simultaneo dell’inizio del ritiro militare nel giro di diciotto mesi. Quello che avevamo trascurato, però, era un’alternativa possibile, capace di mettere insieme obiettivi raggiungibili. La lotta ai ribelli poteva essere ridimensionata a contenimento, anziché annientamento, dei talebani. E il percorso politico-diplomatico avrebbe potuto esplorare uno degli aspetti particolari della realtà afghana: che i Paesi confinanti — anche se in aperta ostilità tra di loro e non di rado con l’America — potessero sentirsi profondamente minacciati dal potenziale terroristico dell’Afghanistan.

Sarebbe stato possibile coordinare sforzi comuni di lotta ai ribelli? Certamente India, Cina, Russia e Pakistan spesso manifestano interessi contrastanti. Ma una diplomazia creativa avrebbe potuto distillare misure condivise per debellare il terrorismo in Afghanistan. Questa alternativa non è mai stata esplorata. Dichiaratisi apertamente contrari alla guerra, i presidenti Donald Trump e Joe Biden hanno avviato trattative di pace con i talebani, che avevamo giurato di sterminare una ventina d’anni prima. Quei negoziati oggi sono sfociati nel ritiro incondizionato degli americani, per opera del governo Biden. Spiegarne i motivi non cancella la brutalità, e soprattutto la precipitazione, della decisione intrapresa. L’America non può sottrarsi al suo ruolo di attore chiave nell’ordinamento internazionale, sia per le sue capacità che per i suoi valori storici. Non può rinnegarli, semplicemente ritirandosi dall’Afghanistan. Il governo Biden è agli esordi. Avrà sicuramente l’occasione di sviluppare e sostenere una strategia comprensiva, compatibile con le esigenze interne ed internazionali. Le democrazie si evolvono nello scontro tra le varie fazioni e siglano il loro successo con la riconciliazione.

© The Economist Newspaper Limited, London (25-8-2021)
(traduzione di Rita Baldassarre)
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Re: La consigliera pisana "talebana" e l'Afghanistan

Messaggio da ale9191 »

Cito liberamente dal FQ “il nuovo regime rende noto che le università riapriranno anche per le donne, che però studieranno in classi separate, come vuole la sharia. Delle donne, di cui già non si vedono più i corpi sotto i burqa, non si deve sentire nemmeno più la voce in radio, dicono le nuove autorità. Dall’etere non arriveranno più canzoni, ma solo notizie e versi del Corano. Nell’Emirato afghano la musica è vietata e la pena per chi la produce è la morte.”

Siamo sicuri di voler trattare con i talebani?
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Re: La consigliera pisana "talebana" e l'Afghanistan

Messaggio da wilcoyote »

Sono loro che dovranno trattare con gli americani, che hanno bloccato tutti i fondi della banca centrale dell'Afghanistan, depositati da loro.