Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
Moderatore: Curatore di sezione
-
- senior
- Messaggi: 790
- Iscritto il: 16 ago 2016, 6:26
- Località: Oltregiogo
Re: Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
E' altamente improbabile.
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
Là dove c'è il pericolo, cresce anche ciò che salva - Friedrich Holderlin
-
- senior
- Messaggi: 3683
- Iscritto il: 5 feb 2016, 9:48
- Località: Roma
Re: Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
-
- advanced user
- Messaggi: 481
- Iscritto il: 12 mag 2015, 12:29
Re: Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
A parte le idee, anche i capelli li ha sempre avuti strani e -è noto- il diavolo è nei dettagli
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
-
- senior
- Messaggi: 7151
- Iscritto il: 17 mag 2015, 21:02
- Località: Cecina
Re: Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
Paolo ... Nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti...(L.Pirandello)
-
- senior
- Messaggi: 4635
- Iscritto il: 20 dic 2017, 21:06
- Località: Firenze
Re: Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
Kamala Harris è stata per 85 minuti la prima donna presidente degli Stati Uniti. Biden, infatti, le ha trasferito i poteri durante un check-up di routine.
-
- senior
- Messaggi: 4635
- Iscritto il: 20 dic 2017, 21:06
- Località: Firenze
Re: Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
È passato un anno dall’assalto di Capitol Hill. Tocca constatare che, come in Italia, i mandanti restono ancora impuniti.
-
- senior
- Messaggi: 4635
- Iscritto il: 20 dic 2017, 21:06
- Località: Firenze
Re: Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
Durante un comizio in Iowa, Donald Trump ha confermato le voci sulla sua possibile candidatura per le elezioni presidenziali del 2024: "Tenetevi pronti. Per rendere il nostro Paese sicuro, glorioso e di successo, io molto probabilmente lo farò di nuovo".
https://www.agi.it/estero/news/2022-11- ... -18703691/
https://www.agi.it/estero/news/2022-11- ... -18703691/
-
- senior
- Messaggi: 4635
- Iscritto il: 20 dic 2017, 21:06
- Località: Firenze
Re: Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
La commissione a maggioranza democratica che indaga sull'assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 ha votato all'unanimità per perseguire Donald Trump con l'accusa di aver incitato i suoi all'insurrezione, oltre che di ostruzionismo, di cospirazione per frodare gli Usa e di cospirazione.
https://www.ansa.it/amp/sito/notizie/mo ... c7fcb.html
https://www.ansa.it/amp/sito/notizie/mo ... c7fcb.html
-
- moderatore
- Messaggi: 11688
- Iscritto il: 12 mag 2015, 12:27
- Località: Nella Piana Campigiana tra Prato e Firenze
Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
Che poi uno dice…
Noi l’ex cavaliere della repubblica delle bandane, detto “papi”, l’abbiamo ancora a piede libero
Noi l’ex cavaliere della repubblica delle bandane, detto “papi”, l’abbiamo ancora a piede libero
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
Quaestio subtilissima, utrum Chimera in vacuo bombinans possit comedere secundus intentiones, et fuit debatuta per decem hebdomadas in concilio Constantiensi
-
- senior
- Messaggi: 865
- Iscritto il: 28 lug 2015, 8:55
Re: Il Re del Mondo: considerazioni sulle presidenziali USA
Spesso ci chiediamo come sia possibile che Trump abbia un seguito che, appare abbastanza certo, lo renderà lo sfidante del futuro candidato democratico alla Casa Bianca, anche a dispetto degli altri candidati repubblicani.
I motivi elencati in questo articolo sono tipicamente americani, ma possono essere estesi anche al panorama europeo e nazionale: progressisti vs conservatori
I primi aperti al cambiamento, che non si può fermare, quando va bene si può gestire: personalmente aggiungerei che è stato gestito male, ma questa è un'idea personale.
Gli altri, restauratori, ad indicare cosa si dovrebbe fare quando sono all'opposizione, ad affermare cosa non possono fare, per forza di causa maggiore, pur volendolo, quando sono al governo.
Ed i primi non capiscono perché ci sia chi vota gli altri e gli altri non capiscono com'è che ci sia chi vota i primi.
Negli States sono un po' più in là come si evince dall'articolo sul dal Corriere.
Sia qui, che negli States, raramente è fatta autocritica, di sostanza, concreta: spesso si incolpano gli elettori, per non aver capito.
Nell'articolo che ho postato, si riferisce l'opinione di un commentatore del New York Times (a 'sto punto, facciamoci l'abbonamento al New York Times, ormai ci sono servizi di traduzione efficienti) che cerca di spiegare perché Trump goda ancora di grande appoggio.
DI FEDERICO RAMPINI
Perché le incriminazioni rafforzano Trump
di Federico Rampini
03 agosto 2023
Neppure i democratici riescono veramente a rallegrarsi davanti ad ogni nuova offensiva dei magistrati contro l’ex presidente. E la prospettiva di una seconda presidenza Trump si fa sempre più reale
Può la più antica democrazia del mondo morire nella noia, in una sorta di indifferenza generale? Mi riferisco allo spettacolo di un’America dove Donald Trump viene raggiunto praticamente da una nuova incriminazione a settimana, e con altrettanta regolarità si rafforza nei sondaggi. Il tutto avviene quasi tra gli sbadigli, in un’atmosfera che assomiglia a un senso di rassegnazione. Il pubblico mangia pop corn in sala mentre sul grande schermo viene proiettato uno schianto fra due convogli ferroviari, al rallentatore.
Neppure i democratici riescono veramente a eccitarsi davanti ad ogni nuova offensiva di magistrati contro l’ex presidente (anche se l’ultima, a rigore, focalizzandosi sul suo ruolo nell’assalto al Campidoglio potrebbe essere la più seria; purtroppo preceduta e screditata da alcune montature giudiziarie farsesche). In campo repubblicano i rivali di Trump sono sempre più deboli, e una ragione sta proprio nelle vicende giudiziarie: sono costretti a solidarizzare con lui, quindi lo ingigantiscono e rimpiccioliscono se stessi. In campo democratico c’è una sorta di inconfessabile nausea che circonda la ri-candidatura di Joe Biden. La maggioranza dei suoi elettori la subiscono, nella migliore delle ipotesi come un male minore, più spesso come un’assurdità contro cui non hanno alcun potere di ribellarsi.
Biden ha tali e tanti difetti che non possiamo dare per scontata la sua vittoria contro Trump. Dunque la prospettiva di una seconda presidenza Trump è reale: sarebbe forse perfino peggiore della prima, temo, sia per le nuove minacce che lancerebbe contro la democrazia Usa, sia per la possibile destabilizzazione delle alleanze internazionali in una fase di estrema tensione geopolitica.
In questo triste spettacolo, la noia attende in agguato anche noi commentatori: le nostre analisi sulla campagna elettorale americana rischiano di essere ripetitive, scontate, banali per eccesso di ovvietà. Perciò è quasi un miracolo quando appare una voce fuori dal coro, che prova a vedere la situazione sotto un’angolatura diversa. Oggi vi segnalo una di queste rare eccezioni. È un editoriale sul New York Times firmato da David Brooks, osservatore di raro equilibrio e lucidità.
Brooks è una grande firma del giornalismo americano. Viene da un passato conservatore, a volte votò repubblicano. Ha condannato inequivocabilmente Trump («sociopatico», lo ha definito più volte) e contro di lui ha appoggiato le candidature di Hillary Clinton e Joe Biden. Aveva anche fatto una dichiarazione di voto per Barack Obama. Insomma, pur essendo rimasto un moderato ha rotto ogni rapporto con i repubblicani trumpiani. Tuttavia fa uno sforzo per capire l’apparente mistero che sconcerta il mondo intero: l’irresistibile ascesa di Trump nei sondaggi. Vale la pena prestargli attenzione, se non vogliamo rifugiarci nel logoro stereotipo secondo cui mezza America è fascista, razzista e bigotta.
Brooks prende le mosse proprio da quest’ultimo stereotipo, quello che demonizza mezza America come una massa di incolti imbecilli reazionari (a cui bisognerebbe togliere il diritto di voto, in buona sostanza, riservando la democrazia agli illuminati). Ricorda come lo ha riformulato in maniera elegante e raffinata un autorevole studioso di scienze politiche (Marc Hetherington, intervistato da un altro editorialista del New York Times, Thomas B. Edsall). «I repubblicani vedono intorno a sé un mondo che cambia in modo sgradevolmente veloce e vogliono rallentarlo, magari anche fare un passo indietro. Ma se sei una persona di colore, una donna che apprezza la parità dei diritti o una persona Lgbt, vorresti tornare al 1963? È improbabile». In questa storia gli anti-Trump sono la forza del Bene e del Progresso. I trumpiani sono oscurantisti e anti-democratici. Sostengono Trump in qualsiasi circostanza e nonostante tutte le accuse giudiziarie, perché lui incarna i loro risentimenti e questa è l’unica cosa che conta.
«In parte io sono d’accordo con questa versione – scrive Brooks – però essa è anche un monumento all’auto-compiacimento delle élite». Da qui parte per illustrare una contro-narrazione, un po’ meno rassicurante per noi anti-trumpiani (posso usare il pronome alla prima persona plurale perché ho la cittadinanza americana; non ho mai votato né mai voterò per Donald Trump).
In questa versione alternativa, spiega Brooks, «noi» non siamo gli Eterni Buoni. In realtà siamo i cattivi. Quella che segue non è una teoria del complotto, al contrario è una storia ben nota, avvenuta alla luce del sole. Dovremmo conoscerla. Ha inizio negli anni Sessanta, quando i figli della classe operaia (no, non solo neri, anzi a maggioranza bianchi) vanno a combattere e a morire in Vietnam; mentre i figli della borghesia ottengono il rinvio del servizio militare grazie agli studi universitari (così vuole la legge di quegli anni). I figli della classe operaia restano, malgrado tutto quel che subiscono, dei patrioti. I figli della borghesia che sono al sicuro a casa propria bruciano la bandiera americana nelle piazze e nei campus universitari, si costruiscono una «buona coscienza pacifista», e insultano i reduci di ritorno dal fronte. La spaccatura tra le due Americhe è già tutta lì.
Qualcosa di molto simile accade negli anni Settanta sul terreno razziale. Le élite privilegiate e illuminate decidono che non bastano le conquiste dei diritti civili, bisogna che gli afroamericani siano portati a livello dei bianchi mescolandoli nelle stesse scuole. Poiché non abitano negli stessi quartieri, ha inizio l’esperimento di massa del «busing», cioè gli autobus scolastici che trasportano alunni da un quartiere all’altro. Nella realtà accade che vengono mescolati i figli dei Black con i figli della classe operaia bianca. Questi ultimi subiscono un abbassamento nella qualità media delle scuole. La borghesia medioalta non viene toccata da questo esperimento di ingegneria sociale su vasta scala, i suoi figli restano al sicuro in scuole di élite. Ma ha la coscienza a posto, sta facendo quel che è giusto per risarcire le colpe dello schiavismo.
E così via, di decennio in decennio, fino a costruire la meritocrazia come la conosciamo oggi. Dove, per esempio, nelle grandi università di élite un modo pressoché certo di essere ammessi è avere dei genitori della classe dirigente (che hanno frequentato quelle stesse università; oppure vi donano milioni); un altro modo è appartenere a minoranze etniche o sessuali. I perdenti sono sempre gli stessi: i figli dei bianchi che non hanno alcun titolo di studio o al massimo il diploma della secondaria superiore. È un sistema intriso di valori progressisti e al tempo stesso profondamente iniquo. Dove i perdenti sono «cornuti e mazziati», diremmo noi. La classe operaia bianca si vede bloccate molte strade, negate molte opportunità, e per di più relegata nella categoria dei rozzi, ignoranti, razzisti. Un presidente come Obama, plurilaureato nella più élitaria delle università, è stato studiato dai linguisti per l’elevata frequenza statistica con cui nei discorsi usava l’aggettivo «smart»: che unisce il concetto di intelligente, brillante, moderno, avanzato. Designa ovviamente quelli come Obama, include generosamente chi lo vota. Gli altri? Stupidi.
Un passaggio prezioso nell’analisi di Brooks riguarda la nostra professione di giornalisti, e in particolare il «tempio» dell’informazione per il quale lavora lui, il New York Times. Un tempo, ricorda l’editorialista, c’erano ancora dei figli di operai nelle redazioni dei giornali americani. Oggi la redazione del New York Times è per oltre il 50% laureata nelle 29 facoltà più elitarie d’America, cioè atenei le cui rette costano fino a 70.000 dollari l’anno. E più questi giornalisti, gli intellettuali, gli opinionisti provengono da ambienti sociali privilegiati, più si «purificano» adottando ideologie ultra-progressiste che esaltano i diritti delle minoranze.
I privilegiati hanno saputo sempre ottenere delle politiche in difesa dei loro interessi: l’apertura delle frontiere alla Cina li ha arricchiti come consumatori o come risparmiatori mentre distruggeva lavoro operaio; l’apertura delle frontiere agli immigrati gli ha fornito manodopera a buon mercato mentre deprimeva i salari operai. I privilegiati decidono il gergo etnicamente e sessualmente corretto che li distingue come illuminati; i non-laureati «devono fare acrobazie per capire come cambiano le regole, e se qualcosa che potevano dire fino a cinque anni fa oggi li espone al licenziamento».
«Le istituzioni élitarie sono diventate sempre più di sinistra, in parte perché chi ci sta dentro vuol sentirsi dalla parte del giusto, mentre partecipa a sistemi che escludono e rigettano», osserva Brooks.
Conclude tornando al tema di attualità, cioè Trump. I non laureati si sentono sotto un’aggressione economica, politica e morale, e vedono in Trump un loro difensore contro i ceti laureati. Trump ha capito che per gli operai la minaccia non sono gli imprenditori bensì le élite professionali, i laureati delle professioni intellettuali. Per la base popolare le incriminazioni di Trump «sono un’episodio nelle guerre di classe tra élite professionali e lavoratori, un attacco condotto da avvocati e giuristi delle metropoli di sinistra che vogliono abbattere colui che gli tiene testa»
I motivi elencati in questo articolo sono tipicamente americani, ma possono essere estesi anche al panorama europeo e nazionale: progressisti vs conservatori
I primi aperti al cambiamento, che non si può fermare, quando va bene si può gestire: personalmente aggiungerei che è stato gestito male, ma questa è un'idea personale.
Gli altri, restauratori, ad indicare cosa si dovrebbe fare quando sono all'opposizione, ad affermare cosa non possono fare, per forza di causa maggiore, pur volendolo, quando sono al governo.
Ed i primi non capiscono perché ci sia chi vota gli altri e gli altri non capiscono com'è che ci sia chi vota i primi.
Negli States sono un po' più in là come si evince dall'articolo sul dal Corriere.
Sia qui, che negli States, raramente è fatta autocritica, di sostanza, concreta: spesso si incolpano gli elettori, per non aver capito.
Nell'articolo che ho postato, si riferisce l'opinione di un commentatore del New York Times (a 'sto punto, facciamoci l'abbonamento al New York Times, ormai ci sono servizi di traduzione efficienti) che cerca di spiegare perché Trump goda ancora di grande appoggio.
DI FEDERICO RAMPINI
Perché le incriminazioni rafforzano Trump
di Federico Rampini
03 agosto 2023
Neppure i democratici riescono veramente a rallegrarsi davanti ad ogni nuova offensiva dei magistrati contro l’ex presidente. E la prospettiva di una seconda presidenza Trump si fa sempre più reale
Può la più antica democrazia del mondo morire nella noia, in una sorta di indifferenza generale? Mi riferisco allo spettacolo di un’America dove Donald Trump viene raggiunto praticamente da una nuova incriminazione a settimana, e con altrettanta regolarità si rafforza nei sondaggi. Il tutto avviene quasi tra gli sbadigli, in un’atmosfera che assomiglia a un senso di rassegnazione. Il pubblico mangia pop corn in sala mentre sul grande schermo viene proiettato uno schianto fra due convogli ferroviari, al rallentatore.
Neppure i democratici riescono veramente a eccitarsi davanti ad ogni nuova offensiva di magistrati contro l’ex presidente (anche se l’ultima, a rigore, focalizzandosi sul suo ruolo nell’assalto al Campidoglio potrebbe essere la più seria; purtroppo preceduta e screditata da alcune montature giudiziarie farsesche). In campo repubblicano i rivali di Trump sono sempre più deboli, e una ragione sta proprio nelle vicende giudiziarie: sono costretti a solidarizzare con lui, quindi lo ingigantiscono e rimpiccioliscono se stessi. In campo democratico c’è una sorta di inconfessabile nausea che circonda la ri-candidatura di Joe Biden. La maggioranza dei suoi elettori la subiscono, nella migliore delle ipotesi come un male minore, più spesso come un’assurdità contro cui non hanno alcun potere di ribellarsi.
Biden ha tali e tanti difetti che non possiamo dare per scontata la sua vittoria contro Trump. Dunque la prospettiva di una seconda presidenza Trump è reale: sarebbe forse perfino peggiore della prima, temo, sia per le nuove minacce che lancerebbe contro la democrazia Usa, sia per la possibile destabilizzazione delle alleanze internazionali in una fase di estrema tensione geopolitica.
In questo triste spettacolo, la noia attende in agguato anche noi commentatori: le nostre analisi sulla campagna elettorale americana rischiano di essere ripetitive, scontate, banali per eccesso di ovvietà. Perciò è quasi un miracolo quando appare una voce fuori dal coro, che prova a vedere la situazione sotto un’angolatura diversa. Oggi vi segnalo una di queste rare eccezioni. È un editoriale sul New York Times firmato da David Brooks, osservatore di raro equilibrio e lucidità.
Brooks è una grande firma del giornalismo americano. Viene da un passato conservatore, a volte votò repubblicano. Ha condannato inequivocabilmente Trump («sociopatico», lo ha definito più volte) e contro di lui ha appoggiato le candidature di Hillary Clinton e Joe Biden. Aveva anche fatto una dichiarazione di voto per Barack Obama. Insomma, pur essendo rimasto un moderato ha rotto ogni rapporto con i repubblicani trumpiani. Tuttavia fa uno sforzo per capire l’apparente mistero che sconcerta il mondo intero: l’irresistibile ascesa di Trump nei sondaggi. Vale la pena prestargli attenzione, se non vogliamo rifugiarci nel logoro stereotipo secondo cui mezza America è fascista, razzista e bigotta.
Brooks prende le mosse proprio da quest’ultimo stereotipo, quello che demonizza mezza America come una massa di incolti imbecilli reazionari (a cui bisognerebbe togliere il diritto di voto, in buona sostanza, riservando la democrazia agli illuminati). Ricorda come lo ha riformulato in maniera elegante e raffinata un autorevole studioso di scienze politiche (Marc Hetherington, intervistato da un altro editorialista del New York Times, Thomas B. Edsall). «I repubblicani vedono intorno a sé un mondo che cambia in modo sgradevolmente veloce e vogliono rallentarlo, magari anche fare un passo indietro. Ma se sei una persona di colore, una donna che apprezza la parità dei diritti o una persona Lgbt, vorresti tornare al 1963? È improbabile». In questa storia gli anti-Trump sono la forza del Bene e del Progresso. I trumpiani sono oscurantisti e anti-democratici. Sostengono Trump in qualsiasi circostanza e nonostante tutte le accuse giudiziarie, perché lui incarna i loro risentimenti e questa è l’unica cosa che conta.
«In parte io sono d’accordo con questa versione – scrive Brooks – però essa è anche un monumento all’auto-compiacimento delle élite». Da qui parte per illustrare una contro-narrazione, un po’ meno rassicurante per noi anti-trumpiani (posso usare il pronome alla prima persona plurale perché ho la cittadinanza americana; non ho mai votato né mai voterò per Donald Trump).
In questa versione alternativa, spiega Brooks, «noi» non siamo gli Eterni Buoni. In realtà siamo i cattivi. Quella che segue non è una teoria del complotto, al contrario è una storia ben nota, avvenuta alla luce del sole. Dovremmo conoscerla. Ha inizio negli anni Sessanta, quando i figli della classe operaia (no, non solo neri, anzi a maggioranza bianchi) vanno a combattere e a morire in Vietnam; mentre i figli della borghesia ottengono il rinvio del servizio militare grazie agli studi universitari (così vuole la legge di quegli anni). I figli della classe operaia restano, malgrado tutto quel che subiscono, dei patrioti. I figli della borghesia che sono al sicuro a casa propria bruciano la bandiera americana nelle piazze e nei campus universitari, si costruiscono una «buona coscienza pacifista», e insultano i reduci di ritorno dal fronte. La spaccatura tra le due Americhe è già tutta lì.
Qualcosa di molto simile accade negli anni Settanta sul terreno razziale. Le élite privilegiate e illuminate decidono che non bastano le conquiste dei diritti civili, bisogna che gli afroamericani siano portati a livello dei bianchi mescolandoli nelle stesse scuole. Poiché non abitano negli stessi quartieri, ha inizio l’esperimento di massa del «busing», cioè gli autobus scolastici che trasportano alunni da un quartiere all’altro. Nella realtà accade che vengono mescolati i figli dei Black con i figli della classe operaia bianca. Questi ultimi subiscono un abbassamento nella qualità media delle scuole. La borghesia medioalta non viene toccata da questo esperimento di ingegneria sociale su vasta scala, i suoi figli restano al sicuro in scuole di élite. Ma ha la coscienza a posto, sta facendo quel che è giusto per risarcire le colpe dello schiavismo.
E così via, di decennio in decennio, fino a costruire la meritocrazia come la conosciamo oggi. Dove, per esempio, nelle grandi università di élite un modo pressoché certo di essere ammessi è avere dei genitori della classe dirigente (che hanno frequentato quelle stesse università; oppure vi donano milioni); un altro modo è appartenere a minoranze etniche o sessuali. I perdenti sono sempre gli stessi: i figli dei bianchi che non hanno alcun titolo di studio o al massimo il diploma della secondaria superiore. È un sistema intriso di valori progressisti e al tempo stesso profondamente iniquo. Dove i perdenti sono «cornuti e mazziati», diremmo noi. La classe operaia bianca si vede bloccate molte strade, negate molte opportunità, e per di più relegata nella categoria dei rozzi, ignoranti, razzisti. Un presidente come Obama, plurilaureato nella più élitaria delle università, è stato studiato dai linguisti per l’elevata frequenza statistica con cui nei discorsi usava l’aggettivo «smart»: che unisce il concetto di intelligente, brillante, moderno, avanzato. Designa ovviamente quelli come Obama, include generosamente chi lo vota. Gli altri? Stupidi.
Un passaggio prezioso nell’analisi di Brooks riguarda la nostra professione di giornalisti, e in particolare il «tempio» dell’informazione per il quale lavora lui, il New York Times. Un tempo, ricorda l’editorialista, c’erano ancora dei figli di operai nelle redazioni dei giornali americani. Oggi la redazione del New York Times è per oltre il 50% laureata nelle 29 facoltà più elitarie d’America, cioè atenei le cui rette costano fino a 70.000 dollari l’anno. E più questi giornalisti, gli intellettuali, gli opinionisti provengono da ambienti sociali privilegiati, più si «purificano» adottando ideologie ultra-progressiste che esaltano i diritti delle minoranze.
I privilegiati hanno saputo sempre ottenere delle politiche in difesa dei loro interessi: l’apertura delle frontiere alla Cina li ha arricchiti come consumatori o come risparmiatori mentre distruggeva lavoro operaio; l’apertura delle frontiere agli immigrati gli ha fornito manodopera a buon mercato mentre deprimeva i salari operai. I privilegiati decidono il gergo etnicamente e sessualmente corretto che li distingue come illuminati; i non-laureati «devono fare acrobazie per capire come cambiano le regole, e se qualcosa che potevano dire fino a cinque anni fa oggi li espone al licenziamento».
«Le istituzioni élitarie sono diventate sempre più di sinistra, in parte perché chi ci sta dentro vuol sentirsi dalla parte del giusto, mentre partecipa a sistemi che escludono e rigettano», osserva Brooks.
Conclude tornando al tema di attualità, cioè Trump. I non laureati si sentono sotto un’aggressione economica, politica e morale, e vedono in Trump un loro difensore contro i ceti laureati. Trump ha capito che per gli operai la minaccia non sono gli imprenditori bensì le élite professionali, i laureati delle professioni intellettuali. Per la base popolare le incriminazioni di Trump «sono un’episodio nelle guerre di classe tra élite professionali e lavoratori, un attacco condotto da avvocati e giuristi delle metropoli di sinistra che vogliono abbattere colui che gli tiene testa»
"Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza Guerra Mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e con le pietre" - Albert Einstein