Il nobel Acemoglu: “Basta oligopoli e tassiamo i capitali. Anche usando l'IA"

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Il nobel Acemoglu: “Basta oligopoli e tassiamo i capitali. Anche usando l'IA"

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L’economista del MIT sull’intelligenza artificiale: “La politica dovrebbe bloccare ogni acquisizione di Big Tech. Lo smembramento è l’opzione più costosa ma va discussa”

«C’è un cieco ottimismo verso l’Intelligenza artificiale, basato su un racconto sbagliato della storia». Daron Acemoglu, americano di origini armene, professore del MIT, è uno degli economisti più citati al mondo. E il suo ultimo libro Potere e progresso, un’analisi degli effetti sociali delle rivoluzioni tecnologiche, è arrivato in piena mania collettiva per gli algoritmi. «Big Tech va regolata e il capitale tassato di più», ci dice a Parigi, dove è tra i relatori del World Investment Forum di Amundi. Ne va del futuro delle democrazie.

Cosa insegna la storia delle rivoluzioni tecnologiche?

«Che l’impatto delle tecnologie trasformative non è per forza positivo: dipende da come vengono progettate e utilizzate, e da chi le controlla. Molte hanno danneggiato i lavoratori e aumentato le diseguaglianze, quando sotto il controllo di pochi, mentre hanno prodotto benefici quando c’era maggiore partecipazione democratica e un’enfasi sull’aumento della produttività dei lavoratori, anziché sull’automazione. Questo vale ancora di più per l’IA che ha usi molto flessibili».

Vede il rischio che sia controllata da un ristretto numero di colossi come Microsoft, Google, Meta?

«È già così e non dovremmo accettarlo. Come è inaccettabile non regolare i social media. La tecnologia è diventata un oligopolio perché negli Stati Uniti, dove l’innovazione è più rapida, abbiamo del tutto rinunciato all’antitrust. Non si sarebbe dovuto permettere a Google di comprare YouTube, a Facebook di comprare Whatsapp e Instagram o a Microsoft di controllare OpenAI».

Vanno smembrate?

«La politica dovrebbe bloccare ogni acquisizione. Lo smembramento è un’opzione più costosa, ma si deve discutere».

L’Europa ha fatto il passo più deciso nel regolare l’IA ma la si accusa di soffocare l’innovazione. È destinata ancora a rincorrere?

«Penso che l’Europa abbia regolato troppo, ma questo non significa che non esista una regolamentazione compatibile con l’innovazione. All’Europa mancano un ecosistema in grado di finanziarie gli investimenti in AI e una struttura di mercato adatta al suo sviluppo, che non sono impossibili da costruire. E proprio perché è indietro, ha l’occasione di indirizzarla verso maggiori benefici sociali rispetto agli Stati Uniti, dove gli incentivi sono tutti sbagliati: verso la manipolazione, la raccolta dei dati personali, l’iper-automazione, l’oligopolio».

Stiamo progettando male l’AI, come sostituto dei lavoratori anziché strumento al loro servizio?

«Assolutamente sì. Dovremmo pensarla come una tecnologia, capace di riassumere grandi quantità di dati in modo efficace, aiutando i lavoratori a risolvere problemi: così non sarebbe una tecnologia di automazione, anche se in parte la permetterebbe, bensì un complemento. E invece c’è una visione ideologica dominata dai benefici per gli azionisti, dalla corsa verso una “IA generale” (di livello umano o superiore, ndr), dall’idea che tutto sarà velocissimo».

Non lo sarà?

«Almeno nel breve impatterà solo le attività che non hanno componenti fisiche, una piccola parte dell’economia. L’incertezza è grande, ma stimo un beneficio sulla produttività tra lo 0,5 e lo 0,7% in dieci anni, e sul Pil tra l’1 e l’1,2%. Non trascurabile, ma non una rivoluzione».

E l’impatto sull’occupazione?

«Gli effetti saranno negativi, ma anche qui lenti. Mi preoccupa molto di più l’aumento della diseguaglianza tra redditi da capitale e redditi da lavoro».

I tentativi di rendere il sistema fiscale più redistributivo, a livello nazionale o globale, sono fallimentari.

«Dovremmo iniziare dal tassare i capitali - cosa che negli Stati Uniti e in molte parti d’Europa si fa poco o nulla - limitando la possibilità delle società di fare arbitraggio tra regimi diversi. Ma prima bisogna prendere atto dei nostri fallimenti».

In che senso?

«Che il crollo di sostegno da parte dei cittadini e la polarizzazione interna, minacce esistenziali per le nostre democrazie, sono frutto di decisioni non prese e che possono essere diverse. Gli Stati Uniti, dove le diseguaglianze sono aumentate e l’aspettativa di vita diminuita, sono il caso più estremo, ma anche l’Italia non cresce da trent’anni: se ci penso è incredibile che gli italiani non abbiano votato partiti ancora più estremisti».

https://www.repubblica.it/economia/2024 ... BG-P7-S2-L