Il ragazzo con gli occhiali
Quell’estate restò ben impressa nella memoria di tutta São Francisco. Non un solo francisqueiro ha potuto dimenticarsi della temperatura che arroventava le strade della città. Si passavano i pomeriggi di siesta a discorrere sulla possibilità di cuocere le pietanze direttamente sui sampietrini della piazza maggiore. Chissà poi se una diceria si è trasformata in cronaca, ma fatto sta che la signora Do Carvalho, correndo in fretta e furia verso casa – in uno di quei pomeriggi dove quasi non si respirava tanto l’aria era bollente – inciampò proprio in mezzo alla piazza e una mezza dozzina di uova, eseguendo un triplo salto mortale, dal sacchetto di carta finì per schiantarsi al suolo, con grande rammarico della signora, che aveva in mente di cucinarle bollite in acqua. La metamorfosi delle uova del supermercato in una frittata bella che fritta, con tanto di crosticina, è diventata la storia del mese, forse dell’anno. Che dire poi delle macchie di unto sulla facciata del comune: è conosciuta da tutti la loro origine americana di bacon arrostito a forza di lanci contro il muro. Un’estate di gastronomia a cielo aperto o di simpatiche leggende entrate nella memoria collettiva di un angolo di mondo provato dal caldo.
L’inserviente Mario Rui de Mendoza svolgeva il suo lavoro senza prestare troppa attenzione al mocio e fissava la luce color arancio che brillava attraverso le vetrate d’ingresso. Pensava agli agrumi, si sarebbe gustato volentieri una buona spremuta ghiacciata. Sentì la gola secca, si schiarì la voce e deglutì. I ricordi iniziarono a saltar fuori da chissà dove, da chissà quali associazioni di idee, come quei pupazzi che schizzano all’improvviso da scatole colorate. Suo cugino Tiago e l’amico pel di carota – di cui non riusciva a ricordare il nome. Non trattenne un sorriso quando richiamò alla mente l’agosto della sangria nelle botti di rovere, quando tutti e tre ne avevano spinto una, in fuga su per la collina. Il risultato di un colpaccio sferrato allo zio Guglielmo, che viveva in isolamento nella valle, eremita, produttore di vino rosso, da cui ricavava bevande rinfrescanti, che proponeva a prezzi esagerati ai malcapitati turisti di passaggio: le spacciava per pozioni dell’allegria. Il giorno dei morti: sua madre che portava sulla testa una criniera di fiori variopinti e sul volto il trucco da Calavera Catrína. Lo scintillio delle paillettes che adornavano il vestito giallo di Adelina, la sera del ballo di carnevale. Il primo amore che gli incendiò il cuore. La purezza d’animo di quella quindicenne portoghese che si sventolava con piume di pavone, ondeggiando fra i compagni. I brividi che dalla mano si facevano strada per tutto il corpo al solo toccarla e le giornate in cui tutto sapeva di lei e poteva distinguere il suo profumo sulla propria pelle. Azucena, l’ossimoro del ghiaccio nei suoi occhi e le fiamme fra i suoi capelli. La triste sorte di una storia sbagliata che ancora oggi gli inumidisce le guance e crea scompiglio fra i pensieri. I battiti aumentavano insieme alla paura per la consapevolezza che nessuna parola sarebbe servita ad evitare l’inevitabile. “Azucena ti perdono, ti perdonerò sempre!” Mentre soffocava la dignità sotto suppliche e preghiere, nel momento in cui la virilità si auto-mutilava senza indugio, lei lo fissava impietrita. Sussurrò “Mario, sei troppo buono!” e gli voltò le spalle. Quel ricordo era vivido nel palcoscenico del suo cervello. Non lo abbandonava mai il riecheggiare del penoso addio di sua moglie.
L’orologio a pendolo aveva da poco rintoccato le sette, facendo sussultare il suo piccolo corpo ricurvo intento a rimembrare le stagioni trascorse. Il museo stava per chiudere ed un giovane ragazzo, con gli occhiali dalle lenti rotonde portati a metà naso, si avvicinò al vecchio Mario Rui che aveva da poco ripreso a pulire il pavimento.
“Mi perdoni, spero di non disturbare, vorrei farle una domanda.”
“Non so in che modo potrei esserle d’aiuto, ma, prego, mi dica. Ho tutta la notte per dedicarmi al mocio.”
“La ringrazio, lei è molto gentile. Nella sala numero due s’impone l’opera di un noto artista del luogo, morto ormai da anni, oggetto della mia tesi di dottorato. Ebbene, dopo varie indagini adesso posso affermare che quell'uomo non è mai esistito in questo mondo.”
“Ah, sì? E come avrebbe potuto creare quadri da un’altra dimensione?”
“Non lo ha fatto. Quei lavori appartengono ad un altro.”
“Opere di uno pseudonimo?”
“Nient’affatto. Egli, il defunto, si è finto autore di queste opere, mentre il vero artista era nascosto!”
“Quali ragioni avrebbe avuto quest’uomo per nascondersi e far sì che altri fossero lodati per il suo merito?”
“Me lo dica lei.”
“Io? Non ero nemmeno a conoscenza di questa storia.”
“Non porti ancora avanti questo gioco. Non adesso che l’ho scoperta. Cali giù la maschera, signore. Ormai è da tempo che la osservo.”
“Cosa significa questo?”
“Il mocio è il suo attrezzo e non parlo dei pavimenti. Il suo gesto riconduce alla pennellata delle opere in questione. Non provi a contraddirmi, sono uno che se ne intende.”
“Ebbene, allora, signor saputello, provi a trovare anche le ragioni di un simile comportamento.”
“Per una donna, forse. C’è sempre di mezzo una donna.”
“Sia sincero: ha tirato ad indovinare adesso, come lo ha fatto poco fa con la storia dell’artista nascosto e del mocio.”
“Va bene. Lei mi è simpatico. Le dirò la verità, non sono nemmeno uno studente di storia dell’arte. Mi interesso di botanica.”
“E cosa l’ha spinta a trattenersi nel mio museo fino all’ora di chiusura? Spero non sia stato per burlarsi di me, altrimenti sarei costretto a considerarla un pazzo.”
“Mi avevano attratto le azalee qui fuori; poi l’ho vista al di là della porta a vetri, col suo mocio, momentaneamente astratto in chissà quali pensieri e non ho resistito: sono dovuto entrare per scherzare un po’ con lei, per riportarla nella nostra dimensione. A volte può nuocere starsene fuori troppo a lungo. Si finisce per perdere la cognizione del tempo o addirittura della realtà. Conosco un tale, si chiama Jorge, andava spesso nel mondo dei sogni e un giorno, quando è tornato, si è dimenticato di aver fatto ritorno nella vita vera e da allora va in giro in cerca del suo drago. Lo chiama a gran voce, a volte si arrabbia se non gli risponde.”
“Mi sta dicendo che a volte il drago si fa vivo ai suoi occhi?”
“Sì, ma solo lui può vederlo, fa parte dei suoi sogni, non dei nostri. Si manifesta in un’altra dimensione. È Jorge che è rimasto a metà fra la sua e la nostra.”
“Accidenti, povero ragazzo.”
“E lei, invece, dove va quando non si trova qui, in questo mondo?”
“Viaggio nel tempo.”
“Eh, i viaggi nel tempo sono i più dolorosi. Quelli fanno male all’anima. Ti restano attaccati, non te li togli più di dosso. Comunque le piante qui fuori non sono azalee, ma gigli. E io mi sto per laureare in storia dell’arte.”
“Oh, insomma, giovanotto! Lei vuole proprio farmi diventare matto!”
“O forse il matto sono io, o forse lo siete tutti quanti voi e io sono l’unico con una mente ben funzionante. Ad ogni modo, adesso devo tornare a casa, Jorge mi sta aspettando.”
“Sì, è meglio che io torni al mio lavoro. Ma mi tolga una curiosità: chi è il povero Jorge? Un suo parente?”
“Jorge è il mio drago.”
Novelle by Cave [n.2 "Il ragazzo con gli occhiali"]
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Re: Novelle by Cave [n.2 "Il ragazzo con gli occhiali"]
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