Ma non come pensate voi.
Leggete cosa prevedeva, nel 1930, sul modo in cui cent’anni dopo avremmo lavorato noi, i suoi nipotini. Le riflessioni del grande economista sono uno specchio in cui possiamo vedere bene quanto, per certi versi, siamo abbrutiti. Alienati, avrebbe detto un suo celebre collega. Perché, incredibilmente, tendiamo a lavorare in un modo più pesante di quanto qualunque mente brillante avrebbe potuto prevedere.
Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routine. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.
Così vaticinava John Maynard Keynes nella conferenza del 1930 Prospettive economiche per i nostri nipoti. E, allora, perché ci rendiamo conto, invece, di lavorare in modo sempre più pesante? Lo dicono anche i sondaggi. Quelli periodici del governo britannico mostrano ad esempio, ricorda Sarah O’Connor sul Financial Times, che la percentuale di lavoratori che ritengono che il loro impiego li costringa a lavorare «in modo molto duro» è salita dal 30% del 1992 al 46% del 2017. Quelli che dicono di dover lavorare «in modo molto veloce» per almeno tre quarti del tempo sono passati dal 23 al 45% del totale e quelli che devono rispettare «scadenze stringenti» — sempre per almeno tre quarti del loro tempo lavorativo — dal 53 al 60%. «Non sono soltanto gli addetti alle linee di produzione di Amazon ad aver visto il loro lavoro “intensificarsi” — dice a O’Connor Francis Green, docente allo University College di Londra — ma anche i pendolari londinesi o i giovani avvocati». Un’analisi della Resolution Foundation ha evidenziato che, nel 2017, oltre i due terzi dei lavoratori con salari alti hanno detto di lavorare «sotto una forte pressione», ma la stessa cosa vale per quelli dai salari bassi, che hanno anzi segnalato il maggiore aumento di pressione rispetto al passato.
O’Connor mette in rilievo un punto importante: negli anni Novanta, i lavoratori dicevano che il principale fattore che li spingeva a lavorare duro era «una propria scelta personale». Oggi, invece, è la richiesta di clienti e consumatori, che vogliono essere soddisfatti il più in fretta possibile (O’Connor dice, in proposito, di invidiare un po’ i colleghi giornalisti che, prima dell’era dell’online, avevano come unica scadenza giornaliera l’orario di chiusura dell’edizione cartacea). E spesso ciò si è combinato con datori di lavoro che hanno tagliato personale e risorse senza però proporre modi più efficienti di fare le cose.
Gli stessi posti di lavoro si sono trasformati — paradossalmente anche grazie alla tecnologia che, secondo Keynes, avrebbe invece dovuto liberarci dalla tirannia delle lunghe giornate lavorative — in peggio: «Diversi luoghi di lavoro, come i magazzini, sono diventati parzialmente automatizzati, il che significa che i lavoratori devono stare al passo con le macchine. Altri lavoratori ora sono più facili da monitorare. Vedi la crescita dei software che tracciano le battiture sulle tastiere dei dipendenti, misurano le loro pause e inviano loro avvertimenti se si spostano su siti non correlati al lavoro» (ne abbiamo parlato nella Rassegna del 20 maggio). In questo capitolo si potrebbero inserire anche i servizi di messaggistica interna tipo Slack, che mettono mentalmente sotto pressione, oltre a distrarci di continuo da quel che stiamo facendo.
E qui arriviamo a uno degli altri paradossi della situazione: lavoriamo in modo più pesante, ma non necessariamente in modo più produttivo. Anzi. «L’intensificazione del lavoro ha coinciso nell’ultimo decennio, nel Regno Unito, con una scarsa crescita della produttività» fa notare O’Connor». E, mentre lavorare in modo più duro non sembra renderci più ricchi, sembra che ci renda più cagionevoli di salute: «Un nuovo studio degli accademici Tom Hunt e Harry Pickard suggerisce che “lavorare ad alta intensità” aumenta la probabilità che le persone riportino stress, depressione ed esaurimento. Hanno anche maggiori probabilità di lavorare quando sono malati. I dati dell’Health and Safety Executive del Regno Unito mostrano che la percentuale di persone che soffrono di stress, depressione o ansia legati al lavoro era in aumento anche prima della pandemia».
O’Connor non si fa troppe illusioni sulle possibili soluzioni. Smontare le molteplici cause che hanno portato all’intensificazione del lavoro non sarà facile. Per questo motivo non si stupisce del successo che stanno avendo le campagne per le settimane lavorative di quattro giorni: «Se non possiamo lavorare in modo meno pesante, forse potremmo semplicemente lavorare di meno».
Keynes aveva torto
Moderatore: Curatore di sezione